domenica 20 maggio 2018

David Szalay – Tutto quello che è un uomo



Fotografando l’anima del tempo.

Con il nuovo millennio la bussola della letteratura mondiale sembra essersi decisamente spostata verso la Vecchia Europa: Cărtărescu, Volodine, Gospodinov, Énard, Tom McCarthy… scrittori accomunati dal fatto di non appartenere a nessuna corrente letteraria comune ma di seguire ognuno un percorso diverso e personale.
Cărtărescu, Volodine, Gospodinov, Énard, McCarthy… e David Szalay, potremmo dire adesso, anche se in questo caso si tratta di un autore europeo solo per parte di padre (ungherese) e nato a Montréal da madre canadese.
Poco importa, con Tutto quello che è un uomo (il suo quarto libro e il primo tradotto in Italia), Szalay dimostra di essere scrittore vero. Osservatore attento della realtà, che filtra ed elabora con grande capacità di attenzione e poi restituisce con uno stile moderno e scorrevole, un linguaggio attento al parlato comune (lezione salingeriana?) con il quale caratterizza bene i personaggi. Attenzione ai particolari, riferimenti colti alternati ad aspetti del quotidiano, misura perfetta nell’alternanza di dialoghi e riflessioni, protagonisti che vengono fuori un po’ alla volta, personalità non esplicitate ma che emergono da quello che dicono e da come si comportano.
I racconti che compongono questa raccolta sono istantanee di momenti di vita scattate sulla sfondo di un’Europa nella quale i protagonisti sono colti in pieno movimento. Uomini in viaggio, che trovano tanto semplice spostarsi quanto complicato capire la realtà, quello che succede a loro e intorno a loro. Uomini che hanno smarrito le coordinate della vita e non sono più in grado di comprenderla. Il campionario è vario: diciassettenni in cerca di identità e ventenni privi di aspirazioni con un orizzonte che arriva poco oltre il proprio naso, giovani adulti già temprati da cinismo ed arrivismo per i quali esiste solo l’interesse personale. E poi, ancora: vite immolate al dio-lavoro, vite bruciate in caduta libera senza mai essere decollate e vite che crollano rovinosamente dopo essersi arrampicate sulle vette del successo. E vite alla fine: che provano a guardarsi con lucidità alle spalle per cercare un senso in quello che è stato, come quella di Tony, il protagonista  dell’ultimo racconto. Un senso che però è destinato a sfuggire, come testimonia una poesia del nipote, Simon, uno dei personaggi del primo racconto della raccolta e che torna qui quasi a dare un senso circolare a tutto il libro:
“una passeggera immersione nella trama
dell’esistenza, l’eterno trascorrere del tempo.”
“Il trascorrere del tempo.” – pensa Tony – “Ecco che cosa è eterno, che cosa non ha fine. E si palesa soltanto nell’effetto che esercita su tutto il resto, sicché nella propria impermanenza, tutto il resto incarna l’unica cosa che non finisce mai.
Sembra quasi un straordinario paradosso.”
Szalay sembra voler fotografare o filmare l’anima del nostro tempo, e ci riesce benissimo. Un tempo contraddittorio, che non sta fermo, che rifiuta di mettersi in posa. Di qui l’abilità del fotografo che riesce a coglierne l’essenza.

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